lunedì 25 maggio 2020

STEP #20

L'IDEA LEOPARDIANA DI UN CODICE DI LEGGI UNIVERSALE
Nella pagina 4439 dello Zibaldone, il 17 gennaio 1829 Giacomo Leopardi considerava che: 
“In questo secolo sì legislativo, nessuno ha pensato ancora a fare un codice di leggi, civile e criminale, utopico, ma in tutte forme, e tale da servir di tipo di perfezione, al quale si dovessero paragonare tutti gli altri codici, per giudicare della loro bontà, secondo il più o meno che se gli assomigliassero; tale ancora, da potere, con poche modificazioni o aggiunte richieste puramente dalle circostanze di luogo e di tempo, essere adottato da qualunque nazione, almeno sotto una data forma di governo, almeno nel secolo presente, e dalle nazioni civili ecc.”
Dalla seconda metà Novecento quella constatazione leopardiana sembra avere avuto eco in due importanti contesti.  
Il primo riguarda il progetto della Costituzione europea: “Predisposto da una Convenzione sul futuro dell’Europa, istituita nel dicembre 2001 con la Dichiarazione di Laeken, il primo progetto veniva approvato nel giugno 2003, a Bruxelles; la Conferenza intergovernativa del giugno 2004 approvava poi una versione consolidata provvisoria, denominata “Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa”, che i capi di Stato o di governo degli allora 25 paesi membri dell’UE e i loro ministri degli esteri firmavano il 29 ottobre 2004, a Roma.  
Il secondo progetto è quello studiato in ambito canonistico e cioè l’idea presentata nel 1965 da Papa Paolo VI di una Lex Ecclesiae fundamentalis, con la quale si intese proporre l’elaborazione di una magna charta che positivizzasse il principi e le regole della legge canonica di matrice universale e lasciasse poi alle realtà locali l’attuazione, secondo una sorta di principio di sussidiarietà verticale ante litteram.
 Nessuno dei due progetti, né quello della Costituzione Europea, né quella relativo alla Lex Ecclesiae fundamentalis, ha raggiunto lo scopo con l’adozione del relativo Codice. Rimane attualissima la considerazione che Leopardi annotò nel suo Zibaldone di pensieri il 17 gennaio del 1829; anzi, quella considerazione s’è fatta ancora più incisiva alla luce del progresso nelle scienze giuridiche e nella legislazione dopo quasi 190 anni da quello scritto del giovane di Recanati

STEP #19

CODE DE LA NATURE



Etienne-Gabriel Morelly, nato nel 1717 (la data della morte resta incerta), fu un importante filosofo e scrittore politico francese del XVIII secolo. 
Nel 'Codice della natura' pubblicata a Liegi nel 1755, fu originariamente ritenuta opera di Diderot che non ne negò mai l'attribuzione. 
Morelly ripercorre il tema della società giusta e comunisticamente strutturata: egli muove dal presupposto che le leggi di natura sono buone perché sono al contempo leggi di Dio e della ragione e, in virtù di tale presupposto, si propone di costruire un nuovo sistema sociale che impedisca all’uomo di diventare malvagio quale invece è – secondo un tema che viene codificato nel modo più efficace, oltre che più noto, dalla riflessione di Rousseau – nella società esistente, in cui a dominare è
l’egoismo, frutto dell’esistenza della proprietà privata.


Nella nuova società – argomenta Morelly – deve essere abolita la proprietà privata, poiché essa è la scaturigine dell’egoismo e dell’avidità, i due principali mali che dilaniano la società esistente. Da questi due mali derivano tutti gli altri.
Riattivando un'utopia vecchia quanto la Repubblica di Platone (e già a sua volta riattivata, per altro, da un Tommaso Moro con Utopia o con un timbro più marcatamente teocratico, da Tommaso Campanella con La città del sole), Morelly sostiene che nella “società giusta” nessuno dovrà possedere se non gli oggetti di uso immediato, il mantenimento dei cittadini sarà a carico della Società. Infine, lo stato dovrà prendersi cura dei fanciulli indirizzandoli presto a un lavoro manuale: un aspetto interessante dell’utopia morellyana, che ne mette bene in luce il retroterra illuministico, è la sua avversione alla metafisica, intesa come un retaggio della superstizione del passato. Morelly si spinge a sostenere che nella società comunista i fanciulli devono essere indirizzati al lavoro manuale e tenuti a debita distanza della sirene ammalianti della metafisica. Pensatore vigoroso e originale, Morelly, per il suo pensare la società comunistica nei termini di un’utopia da realizzare o di un ideale a cui dare cittadinanza nelle pieghe del reale, può essere con diritto inteso uno degli iniziatori di quel “socialismo utopistico” tratteggiato nelle pagine del Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels.
Se anche il suo progetto resta utopico e irrealizzabile, la sua denuncia delle ingiustizie della società reale, sospesa tra egoismo e avidità, resta di una potenza (e di un’attualità) straordinaria